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Alessandro Raina, l’intervista integrale

Luglio 8, 2009

Pubblico l’intervista integrale ad Alessandro Raina per Amor Fou, il cui estratto è uscito nel numero 134-135 di Blow Up in edicola a luglio e agosto.

Cosa non era accaduto durante “La stagione del cannibale”, che pure aveva dati presupposti e senza la quale oggi non ci sarebbero questi Amor Fou? Si può dire che la presente è l’immagine definitiva in quanto a stile e line up?

Gli Amor Fou nacquero su una profonda ambiguità di fondo, purtroppo chiaritasi solo dopo molti mesi. Per qualcuno dovevano essere un team creato per produrre un tot di brani e aspettare che attirassero l’attenzione e i danari di una discografia già da tempo in crisi. Per qualcun altro dovevano rappresentare una band con dei contenuti precisi da divulgare e delle urgenze condivise. La prima opzione si è ovviamente rivelata grottesca e superata, non tenendo conto dei mille cambiamenti portati dalla rete e dai nuovi modi di promuovere la musica, e da un certo punto in poi io e Leziero (Rescigno, il batterista e coproduttore, nde) abbiamo capito che per tenere in vita il progetto e portarlo dove merita avremmo dovuto condurlo e riorganizzarlo al 100%. I cambiamenti sono spesso dolorosi e quasi sempre antipatici, ma ad oggi abbiamo raggiunto una dimensione in cui ci rispecchiamo perfettamente, di cui questo ep e tutto il materiale che diffonderemo in questi mesi spero sia prova tangibile.

Detto ciò credo che il nostro disco d’esordio sia stato molto sottovalutato soprattutto da certa stampa, che l’ha sdoganato in fretta e furia come uno dei tanti progetto paralleli di nomi già noti ed ha preferito concentrarsi su facce nuove, spesso a prescindere dal contenuto musicale e dal livello della produzione. Ma resto convinto che fra dieci anni “La stagione del cannibale” suonerà ancora bene.

Si ha l’impressione che il tuo essere autoesigente abbia lavorato in modo primario sulla voce e l’interpretazione da un lato, dall’altro sul perfezionamento del passaggio dal concept alla scrittura.

Ho iniziato a fare musica poco meno di cinque anni fa. Non ho mai preso una lezione di chitarra nè di canto, e se non ti chiami Thom Yorke alla lunga diventa un problema. Mai sarei salito su un palco se non fossi stato costretto a farlo dalla possibilità di cantare per uno dei miei gruppi preferiti. Ma se la tua arte deve (anche) darti da vivere e se possibile essere ricordata per più di sei mesi occorre molta consapevolezza dei propri limiti e di quanto ci si debba lavorare sopra. Nel mio caso ho rinunciato ad un lavoro strapagato e a mille sicurezze per investire tutto il mio tempo nella musica e nei progetti che avevo, accettando sacrifici economici enormi e correndo rischi, ma non conosco altri modi. Che questo mi venga riconosciuto o meno, o che io abbia del talento a corredare lo sforzo è un altro discorso. E non ho neppure intenzione di provarci fino a cinquant’anni perchè nella vita si può anche serenamente scoprire di avere più ambizioni che numeri. La scrittura ce l’hai dentro ma la compiutezza viene con il tempo e va aspettata, cambia con la vita che ti dà modo di interiorizzare meglio le cose che ti accadono e gli elementi che più ti rapiscono nelle opere altrui. Amo molto gli uomini di fatica, che attendono il loro turno e cercano di farsi trovare preparati. L’immenso Toni Servillo che arriva allo strameritato successo solo a cinquant’anni suonati è per me un eroe.

O forse è solo la normale maturità degli anni che passano…

Così come in tanti aspetti della vita anche nel fare musica oggi penso si debba guardare all’estero e obbligarsi a lavorare secondo determinati standard, altrimenti è piu’ dignitoso accettare che la musica resti un hobby e si eviti di sprecare soldi e tempo a fare finta di fare gli artisti con mille velleità senza sapere nemmeno cosa sia uno studio di registrazione. Una scena e un mercato in grande crisi non potranno mai risollevarsi se i suoi artefici non hanno il coraggio di fare delle scelte, degli investimenti, di affrontare dei percorsi radicali e rischiosi. Tutto questo viene prima di qualsiasi piagnisteo sulla poca visibilità della scena XY e tutto il resto. Anche perchè quella cosa chiamata web di visiblità ne offre pure troppa.

Sei riconosciuto persona di estesa cultura generale. Donde proviene la fascinazione per misconosciuti elementi della letteratura classica e moderna (Ovidio, Damocle), atti a raccontare l’umanità “nata tra il 1961 e l’81″?

Per un italiano credo che farsi una cultura sia molto più che un dovere ed è snervante oltre che doloroso vedere come dagli anni ottanta in poi sia bastato pochissimo a trasformare l’Italia in un grande catino di indifferenza, inciviltà, incuria. Ciò nonostante esiste fascinazione in ogni rivolo della realtà, presente e passata. Basta leggere l’ “Anathomy of melancholy” di Robert Burton, datata 1621, per capire che ogni epoca esprime una forma di grande smarrimento di fronte alla decadenza, e al peggio non c’è mai fine, noi italiani che insultavamo Moro e ci siamo ritrovati Schifani lo sappiamo bene.

E’ un vezzo oppure l’evo attuale / il Novecento non offrono motivi d’ispirazione o riferimenti eros-tanatologici che non siano le strag(ed)i(e) di Stato e la strategia della tensione, vedi anche il racconto che accompagna l’EP?

Amor Fou è anche un progetto fondato sulla divulgazione, questo ci è chiaro. Non è divertente come limitarsi a inseguire la pop song perfetta ma ognuno fa quel che può. Mi rattrista parlare con tanti ventenni scoprendoli ignari di quanto è accaduto in Italia fra il 1950 e il divorzio dei loro genitori. Ci sono vari modi per cercare di interfacciarsi al proprio tempo e di raccontarlo, noi lo facciamo anche ripescando la visione di gente come Marco Ferreri, Germi, Pasolini, Agosti, Elio Petri e tanti altri, che è attuale almeno quanto quella fornitaci da Barbara D’Urso o da Lucignolo o da Daria Bignardi. Tanto gli italiani, essendo in democrazia, hanno già scelto.

Nei tuoi testi ricorre la parola “borghese”: se pop abbrevia popular, c’è modo di fare ancora music che sia for the(se) masses? Occasioni perdute, dichiarazioni mai fatte, lettere vuote: è lo spettro di Bolognina revolution, cambiamenti abortiti sul divano?

Nella mia generazione di lettere se ne scrivevano già poche, incombeva la mail, l’sms, il T9, l’abbreviazione sempre piu’ esasperata. Ma anche chi fra noi over trenta di lettere ne ha scritte tante con cosa si è ritrovato? Non dico politicamente, che conta poco, ma socialmente… quante alternative abbiamo creato per noi stessi e per chi è arrivato dopo? Talmente tante che Red Ronnie -che per me era uno che si è ipotecato casa per comprare la chitarra di Jimi Hendrix e a cui dire grazie se c’è stata bella musica in tv - è oggi l’uomo immagine di Letizia Moratti. Talmente tante che appena è nato un sito con la chat inclusa e si è capito che si poteva scopare di più spendendo ancora meno la fascia over 30 ha regalato all’Italia il massimo incremento mondiale di utilizzo di un social network nell’arco di un anno.

Mi ha colpito che Filemone e Bauci sia stata scritta il giorno di Natale.

Natale per me come per tanti è l’unico momento dell’anno in cui si sta un giorno intero attorno a un tavolo e ci si confronta con i propri parenti, con la loro mentalità, la loro visione del mondo. Le ultime festività hanno rappresentato per me un amarissimo bagno di realtà rispetto all’idiosincrasia che permea ormai irreversibilmente i contesti in cui sono cresciuto, condendoli di falsi miti pseudo liberal e di un qualunquismo agghiacciante. E’ una canzone che partendo da un fallimento individuale, anche nei rapporti fra genitori e figli,  parla di gente sempre più pigra, indifferente, ancorata ai luoghi comuni, incapace di andare oltre l’informazione di massa confrontandosi personalmente con i drammi, i luoghi e i volti di un paese alla deriva perchè incapace di progredire, di aggiornarsi, di maturare, di diventare autosufficiente, di conservare il proprio passato.

Forma e sostanza. Quanto contano rispettivamente in una tua canzone? Il Ticinese per esempio fa piazza pulita del postmoderno, è cantato in una sola breve strofa iniziale, per poi lasciare spazio a un coro da canzone di protesta e a una musica da film… avevi detto tutto?

Contano entrambe. L’italiano è una lingua divina e nel nostro approccio musicale, così come nei miei testi c’è sicuramente un elemento che per quanto nasca viscerale e verista tende ad apparire sofisticato e credo sia il frutto di una sorta di reazione congenita al nostro modo di percepire la realtà che mettiamo nelle canzoni. Il Ticinese è nato da una visione di un personaggio che ha il fegato di Piero Ciampi e le fattezze di Gian Maria Volontè in una Milano di inizio anni ‘70. Leziero era in fissa con John Barry ed è uscita così, l’arrangiamento era già nelle parole e viceversa. Ne faremo un video, o piu’ probabilmente un micro film in cui cercheremo di coinvolgere un’icona del cinema italiano, oggi praticamente rimossa. In Italia mettere insieme le cose è sempre tremendamente complicato e intricato ma forse così è scritto e alla fine la soddisfazione è maggiore.

Si diceva di Casador, tentativo di esporsi all’estero affrontando grandi temi abbastanza scomparsi. A che punto è? Ho saputo di riscontri niente male…

Casador è nato per la volontà di capire a che punto ero con il mio percorso artistico ed è per questo che l’ho scritto e prodotto praticamente da solo e che dal vivo fino ad oggi mi sono proposto con voce e chitarra anche su palchi importanti e ad alto rischio di disapprovazione. I temi sono importanti ma non quanto la voglia di misurarsi con la necessità di “essere all’altezza”. Se si canta in inglese ispirandosi a modelli stranieri non ha senso non andarsi a misurare con il panorama internazionale, e penso sia disonesto non farlo e vivacchiare nel solo paese d’origine. I responsi mediatici sono andati ben oltre le aspettative. Della civiltà e dell’attenzione del pubblico europeo già sapevo, visti i trascorsi con i Giardini Di Mirò. Se son rose fioriranno, altrimenti sarà stato comunque bello. Suonare è straordinario, ma fare dischi e concerti è una cosa leggermente diversa. Se non si dimostra di valere almeno un’ unghia dei propri eroi è bello anche limitarsi a suonare in cameretta e andare ad applaudire chi lo merita ai concerti.

“Decenni di promesse non mantenute”, scrivete nel press sheet. Nelle tue prolusioni polemiche, di cui si trova traccia qua e là per la rete, non manchi di osservare il ruolo dell’artista nel sistema della comunicazione, in particolare nella città dove hai lavorato nel settore moda, Milano.

Vivendo a Milano è ancora più facile, siamo quotidianamente a confronto con un diffuso abbruttimento, e ovviamente non parlo solo di estetismi. Un tempo la vivace borghesia italo-milanese produceva non solo business ma anche bellezza, o molta bellezza tutelava attraverso il mecenatismo, le fondazioni, l’editoria, la produzione cinematografica.  Tutto questo andava anche e soprattutto a beneficio del popolo, della città, del paese.

Cosa daresti per poter operare “nei suoi anni migliori”- cui accenni nel racconto- con l’orchestra di Studio Uno, in un clima più favorevole a chi crea, magari ex novo, e meno a chi si trova il terreno arato o una stabilità nei luoghi di potere?

Sarebbe stato molto bello poter respirare quell’aria, la stessa aria in cui sarebbe stato molto brutto beccarsi una pallottola in testa mentre la sera si passeggiava in un parco. Ma i ventenni di oggi lo sanno che i loro coetanei, trenta (non trecento) anni fa, andavano a scuola armati? Saprebbero spiegare loro cos’è accaduto perchè dalla pistola si sia arrivati all’iPhone? Non rimpiango quegli anni  in quanto tali, ma il loro idealismo, che non ha certo prodotto solo errori e radicalismi, e ce ne accorgeremo sempre di più, al di là dello scontato revival.

Hai visto gli sguardi rapiti delle ragazze che ascoltano Tenco suonare Vedrai vedrai in un celebre filmato d’archivio? I loro spasimanti scrivevano loro lettere anonime remixando Majakovskj e Breton, prefigurando ingenuamente la rivoluzione anche se in realtà si sarebbero accontentati di pomiciare. E’ ovvio che sto estremizzando pallosamente ma credo che oggi corteggiarsi così non sia nemmeno più snob. Funziona molto meglio la chat, si arriva al dunque saltando quella cosa sconosciuta e blasé chiamata seduzione. Sul divano si guarda Nip & Tuck o qualcos’altro di americano, pseudo trasgressivo, fighetto, cripto maschilista, e se va bene poi si scopa, e allora si forse un fiore in bocca può servire sai, ma anche no. Mi pare che sempre più ragazze si adeguino e giochino d’anticipo, assumendo orrendi atteggiamenti maschili. Prima o poi le fanciulle si stuferanno di questa storia, spero. Non tanto le donne in sè, ma la loro femminilità, rappresenta forse l’ultima chance che abbiamo di non abbruttirci definitivamente, e una cosa che mi coinvolge molto è scrivere testi assumendo una prospettiva femminile o facendo i conti con la femminilità che alberga in ogni uomo.

Cosa aspettarci allora dalla sociologia degli anni Duemila che stai per trattare nel disco a venire?

Musicalmente sarà spiazzante, e sicuramente più vario del predecessore, questo perchè di fatto siamo una band appena nata. Partirà e finirà con i volti di persone che abbiamo conosciuto o anche solo spiato girando l’Italia per musica, per amore e per cercare un po’ di quiete, trovando spesso l’esatto opposto.

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Comments

One Response to “Alessandro Raina, l’intervista integrale”

  1. Amor Fou, questa vita non è finita | Italian Embassy on Marzo 1st, 2010 00:04

    [...] se non falsa almeno frenata, il naturale continuum dell’EP “Filemone e Bauci” -qui il dialogo con Alessandro Raina- e la conferma sfarzosa, fluorescente e pluridirezionata di una [...]

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