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DISCO_nnect Festival, Mestre 4/5.9.09

Settembre 8, 2009

Uno di quei festival che cominciano d’estate e finiscono con i pullover addosso. Ove si va “to loose your own edge”, con delle aspettative e ti ritrovi in mano delle certezze. DISCO_nnect, montato a tempo di record nei due spazi di Forte Bàzzera vicino l’aeroporto di Venezia, è stato anche questo: una rassegna di stile ed eleganza così rara nelle situazioni italiane, come l’aveva disegnata l’organizzazione e la direzione artistica dell’équipe fiorentino-londinese di Radical Diversity. Classe che traspare dalle t-shirt con loghi, contenuti e contenitori d’arte contemporanea, apparse per la prima volta tra il pubblico di concerti che diremmo “indie” nel senso che il termine è venuto assumendo. Qualità che ha tracimato dai palchi, suoni rotondi e puliti, bassi consistenti, tastiere in abito da sera, produzioni impeccabili: i Röyksopp su tutti, veri eredi dreamy-technopop dei Depeche Mode, che con una line up scarna (basso, electronics, rullante e uno stuolo di vocalist tra cui una vestita da gufo) hanno tenuto in scacco la folta platea del giorno 2 a suon di sirene dell’alta marea, greatest hits, onde a congiungere le comunità sparse, l’apoteosi di Poor Leno e dell’ultima sensazione Happy up here… “That’s what I want to be, an Italian man!”, urla lo scatenato Torbjorn, e succede il finimondo. Di finissima fattura anche l’esibizione di Fujiya & Miyagi, quartetto scozzese accasato con l’ottima Gronland Records, salito alle cronache per la ripetitività ossessiva dei suoi mantra: accompagnati da splendidi visual imperniati sul concetto del dado e del domino, i musicisti sfoderano tutto il loro impatto kraut-wave che getta una patina d’ipnotismo sulla forma canzone. E’ live dance d’altri tempi, entusiasma il groove incessante di nordwave virtuosa e basso a palla… Se per questi act si può parlare di conferma, la sorpresa –a chi non li conosceva- è venuta dai francesi Principles Of Geometry, altrettanto freddamente nordici e dotati di personalità, con MC sui generis, batteria suonata e una cassa stylish: “the man machine” a firma Tigersushi.

Ma noi siamo Italian Embassy, quindi le circostanze del concerto impongono volentieri di far spazio sul podio anche a Bugo, capace di un cambiamento radicale rispetto a chi lo considerava anni fa, ciononostante fedele a se stesso come ha spiegato dopo la cena: “Ogni volta voglio fare un disco diverso, e tutti mi chiedono che io rifaccia sempre lo stesso”. Al centro della scena lui, Cristian, unico capelluto davanti a tre strumentisti rasati in abito uguale: scorrono i brani degli ultimi due dischi, che ascoltati dal backstage restituiscono la piena fedeltà delle incisioni. Ormai il Bugatti mette d’accordo i più, difficile trovarlo stralunato o eccentrico, è probabilmente l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto, cantabile e confidenziale, a parere privato da preferire al suo alter ego di qualche stagione orsono. L’Italia nei due giorni è stata rappresentata soprattutto al RedBull TourBus stage, una vecchia corriera messa a punto dalla multinazionale alcoolica il cui tetto 7×2 ha ospitato a Mestre una serie di band e disc jockey accomunati dall’unire nella loro fanbase il popolo dell’electro con quello delle chitarre. Svettano gli aretini Thank You For The Drum Machine, penalizzati dalla simultanea coi Röyksopp ma comunque abili alle prese con una montagna di sintetizzatori e affini, devastanti alla batteria, iconografici e precisi tra basso chitarra e voci: space pad robotica killer! Per non dire di Monica Vitti, futuro tormentone a firma Le Rose, duo romano lui-lei ribattezzati “cyber Albano & Romina” con latex e fluo a dominare addosso, paillettes glamour e Decibel (la prima band di Enrico Ruggeri) a manetta: al suolo ballano Shirt Vs T-Shirt e i loro ospiti, stravolgono il ritornello a uso e consumo del calembour, segno che la canzone è più che riuscita e presto invaderà l’aria azzardando paragoni con Il Genio del 2008. Si diceva di Fabio Nirta e Robert Eno: i due implacabili Partyzani hanno aperto ufficialmente il festival dopo le 17 di venerdì 4 settembre, spingendo la dimensione live fatta di scariche electro a produzione propria, remix per i Devo e zZz, cosmic-ità dove Berlino incontra New York: ampiamente promossi, avrebbero meritato miglior collocazione oraria. Come i No Seduction, che hanno avuto il compito di inaugurare il sabato, ai quali la fortuna non ha arriso spezzando la corda della chitarra, ma che hanno portato avanti positivamente l’esibizione prima di coprirsi con golfini, per via del vento che cominciava a non dare tregua, mentre i DiD hanno potuto godere di un pubblico più numeroso nel “boschetto” a fronte degli ormai cronici problemi di suono, la chitarra non usciva e la particolare collocazione ristretta e oblunga impediva i movimenti tradizionali. Comunque i quattro torinesi hanno ricavato il consueto totalitarismo p-funk dalla coda acida e Time for shopping si conferma una delle canzoni più azzeccate e catchy dell’anno, punta di diamante dell’album “Kumar Solarium” in uscita a ottobre per Foolica Records. Se la concomitanza con gli eventi del main stage ha fatto dolorosamente skippare i live di Swim, dei Clover e degli Hacienda più i set dei Loudtone, si è comunque riusciti ad ascoltare le selezioni in nuance noir di Natural Disasters (anche se avrei assistito con speranza al live), la glassa per la massa French house dei Fare $oldi, il delizioso brit pop di Paolo Mei –coi Phoenix la miglior musica da ascoltare alle 6 del pomeriggio, grazie uomo Factory!- gli influssi soul e hip hop nel giustamente affollato melt di Scuola Furano, l’easy school dance nello spinning di Titan e Allo by La Valigetta… e italiano era il pueblo sotto gli aerei che partono e arrivano (Venezia dall’argine, vento caldo dell’estate): non solo locals stanziali e presenzialisti ma soprattutto l’accento più presente dei nuclei toscani, con addetti ai lavori milanesi, organizzatori di club, viaggiatori nei camping dei bungalow convenzionati e comunicatori in tutti i mezzi del web –compresa la nascente applicazione Thounds- che finalmente si incrociano di persona prima di far ritorno ai propri avatar.

Una volta assolte le doverose quanto piacevoli funzioni “statutarie”, questo spazio sta trattando degli altri protagonisti internazionali, segnatamente del personaggio James Murphy, pacioso e facile da incontrare assieme al suo batterista Pat Mahoney dietro le coltri di una prima serata dalla quale ci si aspettava più riscontro di affluenza, proprio in nome di LCD Soundsystem: che diventa Special Disco Version, come l’etichetta apposta sui remix di brani pop prima che si chiamassero così. Ovvero un double djing che spiazza chi si attendeva esempi concreti del suono DFA (nessuna chitarra, rarissime abrasioni o martelli) per avventurarsi nella propria collezione di dischi mirabilmente tirata in faccia durante Losing my edge: dalle casse cola classica disco ’70 da Studio 54, ogni tanto qualche escursione ’80 per arrivare a quel Prins Thomas che ha remissato una trance del suo “45:33”, indice di un eclettismo giocato tra rilasci e accelerazioni –maggiori i primi, per la verità- mentre due danceuses si arrampicavano su lenzuola perpendicolari al palco a creare effetti cinetici. Aleggia lo spirito di Hercules, cosmopolitismo newyorkese replicato in laguna nei giorni della Mostra del Cinema e della Biennale d’Arte, il Love Affair con l’audience si è compiuto in nome di un diverso modo di intendere la musica da ballo. Specie rispetto a quanto avvenuto prima e dopo: i Glimmers scendono dalla consolle e occupano il palco come Disko Drunkards, mise sport vintage bianca e rossa con la chicca delle ginocchiere da volley, un Belgian touch dai colpi tradizionali e convincenti. E le ovazioni per Ebony Bones!, ensemble dal costume à la Go! Team con l’energia delle Cansei de Ser Sexy, sax e dreadlock guy, coriste posh parruccate di blu: the glocal party inizia con pianolone e bassi tamarri a sfidare il freddo, entra in scena Lei e la sua enorme presenza si arrampica sui drappi e i woofer, quanta lo spettacolo e quanta la musica? Eccezionalmente tanta, suonata da un numero cospicuo di elementi sul palco, zero plastica: l’attendance delira, volano nastri rosa passati di mano nelle prime fila, salti e ritmo. Soul punk? Baile clash? Chi se ne importa delle definizioni, Ebony Bones! col punto esclamativo è tribù afroamericasiatica, musica del 2010, una bomba che prima dell’ite missa est addobba in senso dancehall Another brick in the wall dei Pink Floyd… Questi gli highlights di un festival che ha visto anche il ritorno di A Certain Ratio, secondo tanti uno dei motivi per cui valeva la pena di esserci, dolorosamente soccombenti alle necessità alimentari che alle 9 di sera si fanno purtroppo sentire; i tremendisti Panico, cileni di Francia dal tiro postpunk, che hanno avuto il compito di testare i motori del main stage nel warm up del venerdì; i deludenti Little Dragon e i set di fine serata, JoJo de Freq (Bugged Out) che piazza sul lettore Ti sento dei Matia Bazar, Mickey Moonlight di Edbanger che sotterra il carnevale con battute durissime, infine l’aftershow tutto veneziano del gigante Spiller e dei pupilli 2 Guys In Venice, coriandoli di chitarra metal a trasformarsi in fidget per il coro generale: “Hip hop, be bop a lula, questo ritmo è supa doopa fresh!” finché voci sull’arrivo delle forze dell’ordine hanno interrotto la festa quando stavano rintoccando le 2.40 del mattino e gli encomiabili tecnici del suono avevano il loro daffare nella fase di smontaggio sotto temperature minime autunnali.

“E’ andata”, ci si dice fra conoscenti, e da questa parte si benedice la vicinanza geografica che fa tornare indietro con comodo quando l’alba è alle porte. Un po’ di sfortune in corso d’opera in meno, un po’ di manifesti affissi e materiale visivo a girare per le città del Veneto, magari dei collegamenti più sicuri in quanto ai trasporti pubblici e un po’ più di fiducia verso qualche realtà italiana non inferiore ai corrispettivi stranieri, e DISCO_nnect può legittimamente avanzare la candidatura per una seconda edizione nella gronda lagunare, consapevole che a premiare gli sforzi e meritare la palma di miglior festival italiano debbano essere sempre e solo la qualità artistica e antropologica, il senso di differenza dal resto, una teoria retrostante, solida e inattaccabile percepita dalle provvide istituzioni e dai destinatari sempre più curiosi.

Gli scatti ritraggono nell’ordine: BUGO e THANK YOU FOR THE DRUM MACHINE

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