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Che cosa vi ho dato? Tanta musica

Novembre 24, 2011

Cari tutti e tutte,

quando nel recente passato paventavo questo momento presente, ero sicuro mi sarebbe dispiaciuto molto di più di quanto mi dispiaccia ora. Segno che è il momento giusto per dire basta e staccare, prima che il dominio scompaia tra pochi giorni, e non ricordo ormai più quante righe copre questa parte nel form di wordpress elaborato dal sempre ottimo Fulvio Romanin, prima di arrivare alla foto. Poche? Troppe? Clic.

Ma come -qualcuno potrebbe chiedersi- proprio ora che le sorti del quotidiano di Parma al quale ho prestato la mia opera di redattore sono quantomai incerte, intermittenti, volte al brutto, e quindi magari torna il tempo per occuparsi di nuovo seriamente della comunicazione, informazione, promozione riguardo le musiche indipendenti italiane, anche verso utenti esteri? Sì. Non tanto perché io non sia più informato dal succedersi delle cose musicali, anche se ho perso passaggi specie relativi al folto apparato di notizie, territoriali e non, che erano una delle forze di Italian Embassy.

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ManzOni, Chioggialab, 26.2.2011

Febbraio 26, 2011

In un giorno sono arrivati i cd e la trattazione su Rolling Stone, alle 23.33 i ManzOni salgono sul palchetto di Chioggialab davanti a un pubblico più folto, convinto e chissà, forse coinvolto dell’ultima volta. Siamo in diretta e cominciano coi Resti, poi l’Astronave una dietro l’altra, Emilio riverbera che manco gli Explosions e c’è un silenzio irreale, tutti assorti. Ops, ho parlato troppo presto, la chitarra di Ummer riporta i volumi al loro posto, quelli dei suoni e non delle chiacchiere. Finalmente il postrock sull’ultima rullata di Fiorenzo, c’è gente anche fuori, due luci sopra il palco introducono Ho paura, Gigi caracolla “anzi non me ne frega un cazzo giuro” e la voce s’impenna, l’uomo contorto come olivo francescano, i loop padroni e gli applausi scrosciano. Maledetto disco pieno che non mi fa postare una foto, una nuova canzone bellissima sui morti e il paradiso, sempre il padre e la madre, è lenta e quattro cinque file di persone sono composte con pochi andirivieni, addirittura Emilio alla batteria, Gigi finisce la sua parte e passeggia lasciando il campo ai “ragazzi” come li ha definiti Beppe Fabris sulla carta giusto poche ore fa, fragrante di edicola, Tenca riprende proprio mentre una combriccola ridanciana non se ne cura, se questo è il buongiorno a casa figuriamoci fuori, “e il paradiso già non c’è più”, gli strumenti cambiano di mano a velocità vorticosa, si scommette su quale è la prossima, vince inopinatamente Confessione e tutti dovrebbero stare zitti perdio, anche le bottiglie di birra non tintinnare mentre dietro il mixer si parla di reggae, bah. Pathos, non ci sono altre parole. Il clou per ora. La nuova frontiera è urlare nel silenzio, oppure girare l’Italia col booking di CYC per i ManzOni: Scappi è qua e canta con gli ultrà, “e alla fine il sogno” ovvero arrivano -tardi- i Nicola “padovani”. Capolavoro, capolavoro, capolavoro. Una canzone pop, come poche se ne scrivono in Italia da anni. Tu sai (il prossimo singolo?) che finalmente le foto stanno per comparire , si sente bene grazie a RRRocco che manovra i cursori, domani i ManzOni registreranno il live per Area51 di Radio Città del Capo che andrà in onda il 12 marzo, proprio quando a Bologna si esibiranno con le altre band della scuderia Garrincha. Chioggialab è ai piedi di quelle chitarre, anche chi non viene mai… tutti cavoli in confusione nelle foreste tropicali, nelle code psichedeliche, tutti viaggi con gli aerei, Gigi non spiccica parola tra un brano e un altro. Altra nuova canzone d’amore, di scuse, di mare, poi s’increspa, “quel sole ma meno violento sulla pelle, la crema solare”, ametrico e ormai incapace di trattenere l’odioso brusio di fondo se non col sovrastarlo orale, arpeggi di matrice consorziata e dissonanze che derivano dai Maladives. In queste serate Chioggialab dà il meglio, spazio sociale sala prove unico rifugio in città, l’umanità si mescola ma non si agita, le corde di Carlo sventolano l’aria con raffiche di sveglia. Cosa manca all’appello? “Più chitarra in spia”, è vivo, come il Cristo di Capossela, Cosa ci sarà, forse un editore indipendente forse la comitiva di Porto Viro, FORSE TROVERO’ L’AMORE FORSE L’ILLUSIONE! il pubblicodimerda non è caldo ma partecipa, ora attacca A lei di lei o come si chiamerà, è nuova ma esiste da molto, non è nel primo digipack bellissimo disegnato da Matteo Romagnoli e Marcello Petruzzi ma potrebbe essere nel prossimo, in autunno e oltre, “lassùùùù”, tutto deve cominciare quando tutto è forse già accaduto, i tempi della musica, della conoscenza, della modica industria, i bassi sforano e vengono richiamati docili, chissà quanti strafalcioni e virgole di troppo in questa narrazione, il palco è blu lo dici tu, ora verdeviola, periodi che non finiscono mai, in piedi e seduti, fedelissimi irriducibili, “a suonare sempre le stesse cose mi rompo i coglioni” ha avuto modo di dire Gigi ai media finora. “Perché mi dici come si fa a parlare d’amore quaggiù dove anche le biciclette vanno a motore”, poi i colpi, le bombe di là del Mediterraneo, Ummer rimbalzato a fondo palco, una cerveza por favor: is this it? This is the end? Forse sì. Concione manzOniana in mezzo le assi come fosse un briefing d’ufficio, si analizza la prova, si fa l’allenamento defatigante attorno alla pista di atletica come il Parma di Scala. I cerchi sono fatti per chiudersi, e gli olimpici ManzOni ne hanno ben cinque, quanti sono loro.

A Classic Education, Ariano P., 15.2.11

Febbraio 16, 2011

Solo due cd sulla parete del Porcupine, gli Anathallo che erano passati di qua e i gloriosi Sao Paulo Underground. “Sto per dismetterli, forse terrò solo i vinili”, mi dice Augusto per evitare di parlare della Juve. Non cessa invece l’ottima programmazione del locale di Ariano Polesine, nel mezzo della nebbia che per una sera concede tregua: dopo Oh No, Oh My in una settimana, di giorno feriale, da Bologna salgono A Classic Education, per una sera in cinque, e con Giulia febbricitante alle tastiere. Poco importa, gestore e clienti sono presi bene anche se altre volte, forse per band meno rinomate o empatiche, l’affluenza poteva dirsi maggiore, per quanto fluttuante tra interno ed esterno: il tempo di sistemare il rullante arrivato da Chioggia e registrare su foursquare la propria presenza che gli A.C.E. scaldano i motori con molte canzoni nuove, potrebbero vedere la luce nel corso del 2011 secondo la consolidata formula del cuculo ovvero deponendole in vari nidi, un 7 o 12 pollici, una compilation, un free download selezionato. La voce di Jonathan Clancy è giustamente alta, la scaletta recita Work it out, C86, Spin e prima dei brani più noti dalle ultime release (Gone to sea, Terrible day) c’è tempo per una cover che viene dal Texas anno Sessanta; le nuove si assomigliano un po’, veloci movimentate e naturalmente addittive, arriva prima la musica poi il claim, si ondeggia nell’attesa di poterle cantare ai piedi del palco mentre arriva il donkey, panino caldo con crema al pepe, un must da accompagnare alle birre ambrate. What my life could have been? mi chiedo “fissando” Paul -Pieretto, il bassista- a pochi giorni dal trasferimento nella loro stessa regione, peraltro spesso popolata dalla fitta colonia musicale portovirese che anche stasera stacca il tagliando di presenza. I lost time è una traccia della madonna, il migliore highlight della serata, ormai è noto che Stay, son è archiviata nei live, inutile chiederla: gli encore sono caldeggiati dalla temperatura sono un altro remake, stavolta addirittura di Elvis (qualche vicinanza di stile ci può stare, in fieri) e il pezzo forte Best regards, non c’è modo nominalmente migliore di abbandonare lo stage e precipitarsi a incassare il dovuto dalle t-shirt cavalline, dalle spille extralarge, dai vinili. Venerdì 18 saranno a Zuni (Ferrara) e il 4 marzo all’Unwound di Padova, poi la lunga marcia statunitense che li riporterà in Emilia ad aprile inoltrato, in tempo per Handmade festival…



Madrac, Zuni (Ferrara), 13.2.2011

Febbraio 15, 2011

Arrivo a Zuni che i Madrac stanno facendo il soundcheck e tra poco iniziano gli aperitivi, abbraccio la sequoia Fulvio e le mie orecchie si accorgono che il giovane Zanna ha una voce che spacca, anzi che bomboclat. Il palco è spoglio, le macchine di Kappah e l’apparato di tastiere di MattiaC si guardano muti, sul trespolo poggia la chitarra rock di Reddkaa. Tutto slitta e si fatica a far rientrare i fumatori, all’ora convenuta il pubblico è rado ma se ha scelto questa alternativa ha il diritto di sentir pompare le casse e i Madrac doverosamente assolvono mettendoci il massimo della convinzione, del resto hanno appena avuto il loro battesimo del fuoco live -logicamente a Udine- e quindi ogni occasione è buona per mettere chilometri nelle gambe, ora che il lancio dell’”Esercito del sole” è compiuto e lo si trova in streaming sul sito di XL. Io non ho paura nel giorno della protesta delle donne, la dice lunga su quello che sarà il set: Zanna canta più che rappare, tiene le rime ma ciò che esce è la sua voce non solo le parole, Reddkaa autore e secondo frontman spinge le corde a performance insolite nell’hip hop in Italia, sfiora l’hard e tira fuori pennate di suono utili anche ai ritmi dei potenti beat sparati da Kappah, il necessario ornamento elettronico è completato in maniera egregia da MattiaC. Quando dicono che un live è come il disco, molti si prendono male: io no, sono soddisfatto di vedere che allora non erano trucchi da studio di registrazione, che tolti i featuring non ripetibili l’insieme regge alla grande per quello che è, oltre il flow e il gergo, una selezione urbana di crossover tra i generi difficilmente perfettibile nel volersi rendere groovy, anche tranchant (Miele e veleno), in poche parole il disco che dovevano fare, che andava fatto. Le tracce dell’album scorrono tutte, nessun recupero dal passato par furlan, sull’onda i due vocalisti azzardano un “fuck you, I won’t do what you tell me” e ci si rende conto che l’unico assente -ingiustificato- è il pubblico, anche quello HH che ha preso a frequentare di recente illocale di via Ragno, e forse non riconosce in Madrac esemplari della propria stessa specie. Ay apatia ferrarese, desolandia che vai al garage dell’ultim’ora concomitante, vedi di rifarti domenica 27 febbraio che arrivano Fauve! Gegen a Rhino…

weekend 27-30.1.11 e utilità dei live report

Febbraio 1, 2011

Noi siamo quelli che non si curano tanto di quale copertina presenti un disco negli organi di stampa, anzi che manco le pubblicano nei propri, guardiamo alla musica e al suo rapporto con la società mentre cambia la vita di chi scrive e forse di chi ascolta, in connessione con altre monadi del gennaio 2011 al Rivolta di Marghera, allo Zuni di Ferrara, al Sin-è di Porto Viro reduci dal gigantismo GY!BE dell’Estragon. La dimensione parva ed estemporanea del riattato locale polesano, che i numeri li fa e vede Andrea Mancin (My Awesome Mixtape + 2) alla direzione artistica scaraventa sul delta i Vegetable G, barretti al cioccolato con filamenti di zinco pressofuso presto ribassati nei volumi che fastidiano la solerte compagnia troppo vicina alle casse: nomea di Blur italiani, lezioni di Calvino e tastiera sporgente nel palchetto e nei suoni. Chi guarda all’abito e non al monaco difficilmente concederebbe chances ai ragazzi di Monopoli, ma noi siamo di fazione claustrale quindi ci riesce facile emozionarci come quindicenni per i lalala dei cori tutti uguali, le birre rosse pastose, i calembour e l’atmosfera improbabile, pagando anzi all’idea di avere nella propria città un’audience numerosa come quella della gronda contarinante. Il meglio del college made in Italy e le luci sempre inopportune di una ribalta fronteggiata da tavolate stanziali, questa la verità, col grosso fuori ad espletare il “sacro dovere” della chiacchierata pre-post-durante il fumo. Al termine ci accodiamo a Giorgio e Luciano per parlare del loro festival Dirockato, che sta funzionando nella letizia che del doman non v’è certezza, certe cose solo a sud ci si dice, il Sin-è invece continuerà ogni giovedì o quasi, ocio al Calorifero il 17 febbraio e chi s’è visto s’è visto.

Il Rivolta pei Verdena assume il sembiante ’97 del live CSI periodo Tabula Rasa, migliaia dentro e a giro per gli spazi sistemati, un carnaio non immediatamente giovanissimo anzi eterogeneo, dopo i rischi del mastodontico live di Capossela l’aria è appena più respirabile (sempre meglio del catino bolognese di due sere prima) per i razzi le arpie l’inferno e le fiamme imminenti. Compagnie di giro in versione extralarge, vecchie conoscenze radunate, i Love in Elevator non scalfiscono l’attesa da casse debordanti, da chi apre la bocca e sta per fare un urlo Nineties all’apparizione del trio bergamasco, poche parole e tante raffiche: secondo previsione eccellono -al gusto personale di chi scrive- nelle ormai tante deviazioni dal cliché heavy 70, per cadere nei Requiem e mostrarsi ordinari nelle vie di mezzo. Ben venga “Wow” a servire in tavola un menu tanto composito, attorno ci si ciglia e da tradizione si attende una Valvonauta che non verrà se non nel coretto delle vicine di piastrella. Starless il top, ma già in scrittura, poi stando dietro chiaro che il pathos ne risente, i fratelli Ferrari e Roberta Sammarelli -oggetto delle occhiate ormonali degli sbarbi- sono una macchina da live e chi doveva avere ha avuto, sciamando dalle uscite laterali fin la consolle di Momo e fuori, oltre, l’infinito stradone del vizio e delle corriere pendolari all’ultimo tuffo.

Zuni è ormai casa, dove arrivi coi gruppi e non viene mai in mente, durante, di ricavarne uscite alla Tondelli. Check che si protrae oltre l’ora aperitiva come la conosciamo in Veneto noncuranti delle già tante ragazze presenti al locale, No Seduction risalgono su un palco dopo pochi mesi nel pieno delle lavorazioni per i nuovi brani, solo Confident (incluso nella ventura compilation di Foolica) presentato live a un pubblico che aumenta, il maestro Gabrielli ciliegiona sulla torta, affabile e indaffarato come sempre a godersi una sera sotto il palco e non sopra. Scaletta rodata, l’intrusione di microkorg e kaoss pad accanto agli altri software, la passeggiata spaziale di Copyrighted a dare ragione alle teste che si muovono, ai piedi che battono, all’alcool che scorre sul buffet. C’è chi balla e compra il disco come ai bei tempi, si può ripartire da questo, senza risparmiarsi, e non fermarsi mai (mai mai mai).

Arrivati che siete fin qua, risolvete se questa sub-rubrica ha un senso, un valore fuor di prosa, aiutando la presente blogzine a cambiare per continuare ad essere efficace, ora che come dicono certi politicanti “nuove sfide chiamano” e da questa parte della tastiera non vi è alcuna intenzione di mollare la presa. Anzi.

Three In One Gentleman Suit, China report

Gennaio 25, 2011

I Three In One Gentleman Suit sono andati a suonare in Cina e, con buona probabilità, voi no. Siccome non v’è andato manco l’ambasciatore o suoi legati, Giorgio Federico e Paolo raccontano per Italian Embassy la “loro” Cina attraverso un saporito report che la blogzine pubblica integralmente. Grazie e complimenti, ragazzi!

“Prendere e partire per la Cina era una cosa che non ci saremmo certo aspettati di fare. Sette anni fa, quando abbiamo cominciato a suonare speravamo di girare l’Italia il più possibile, oggi dobbiamo ammettere (con poca modestia) che siamo andati un po’ oltre.

Partire da Bologna il lunedì mattina, quando tutti sono al lavoro. Partire con un aereo questa volta, nessun furgone, nessuna macchina. Sappiamo che all’arrivo ci attende un mondo completamente diverso. Siamo rodati, abbiamo fatto molti tour, abbiamo visto molti posti, ci siamo confrontati con molte situazioni, ma questa volta è diverso: il brivido dell’imprevisto ed imprevedibile ci sfiora. Questa volta tutto ha un sapore diverso, specialmente perché saremo completamente nelle mani di Wane, la nostra tour manager cinese che non abbiamo in realtà mai visto né conosciuto.

Ci sono volute due notti consecutive senza giorno in mezzo per raggiungere Shanghai. Osservare la piccola icona dell’aereo tagliare a metà il continente asiatico, sorpassando stati con nomi variopinti, è una attività che ti può ipnotizzare e rendere la trasvolata di 11 ore meno pesante di quel che in realtà è.

Sta di fatto che Shanghai, con la sua aria irrespirabile, con i suoi infiniti palazzi in costruzione, con le sue accalcate metropolitane ci ha accolti di sera. Wane ci ha ritirati all’aeroporto e per raggiungere la casa di Dai Cheng (amico e collaboratore di Wane), dove abbiamo pernottato, ci abbiamo messo un paio d’ore.

Non mi soffermo a descrivere passo per passo il percorso che abbiamo compiuto in questo sterminato paese, basti sapere che da Shanghai siamo partiti e a Shanghai siamo tornati dopo 22 giorni e dopo aver lambito il Vietnam per risalire verso nord. Migliaia di kilometri ci sono sfilati davanti agli occhi, mentre stavamo comodamente seduti su treni veloci o contorti su scomode sedute di treni lerci e popolari o addormentati sui bus intercity. Prendete un atlante e scoprirete che sto parlando di un tragitto all’incirca lungo come Roma – Copenhagen e ritorno. Descriverò le nostre peregrinazioni per grandi temi, onde evitare di scrivere un papiro che rischia di diventare abbastanza noioso, oltremodo prolisso e di impossibile lettura.

CONCERTI. Abbiamo trovato una grande empatia. Manca una grandissima parte della cultura musicale che fa parte del background di ogni euro-americano. Tanto per capirsi in Cina oggi sono attuali gruppi che per noi rappresentano la storia di vent’anni fa. I Joy Division sono attuali e percepiti come contemporanei perché mancano i vent’anni di musica successiva e perché sono veramente arrivati “oggi”. Ci sono le grandi icone della musica e se ne stanno lì, indistinte le une dalle altre, giustapposte ed estemporanee. Wagner vale VERAMENTE quanto Kurt Cobain, semplicemente le persone, in base alla loro storia, sono attirate più dall’uno che dall’altro. Questo rende il pubblico cinese estremamente più “ingenuo” e “puro” dell’ascoltatore europeo. Per questo i cinesi sono empatici: se il tuo show vive di carica fisica e nervosismo (come è il nostro caso) il pubblico ti risponde sulla stessa lunghezza d’onda ed in maniera assai più amplificata. Al lato pratico diventa molto divertente: è facile trascinare, perché la loro sete di conoscere e condividere li rende veramente pronti a seguirti. Fino a prova contraria non è sbagliato, sarebbe bello trovare più spesso un atteggiamento così libero da schemi anche in Europa.

Poi si esistono anche (e soprattutto) i clichè. Le foto di rito dopo i concerti sono un appuntamento immancabile, il feticcio dell’autografo sul CD è un must irrinunciabile, ma questo fa parte più del folklore che della cultura vera e propria. In genere abbiamo incontrato persone ed organizzatori molto curiosi e spesso assai disponibili e felici di avere una band internazionale come ospite; per mostrare, confrontarsi e conoscere.

Le band con cui abbiamo condiviso alcuni palchi ci sono sembrate abbastanza acerbe. Vuoi per un problema di mancanza di confronto con la musica contemporanea, vuoi per la poca attenzione verso la musica rock in Cina. Alcune hanno proposto belle idee, ma manca quasi completamente la cultura della musica “di gruppo” e si capisce benissimo che i concerti in Cina, un po’ ovunque, sono episodi più unici che rari. Ci hanno descritto Pechino come un’isola felice, dove alcune buone band portano avanti una attività costante e ragguardevole, purtroppo non abbiamo avuto la fortuna di arrivare fino alla capitale. Rimane la convinzione che, per proporre del rock non proprio codificato secondo un genere preciso in Cina, devi essere pazzo, oppure un po’ sprovveduto. Beh, con grande soddisfazione noi ammettiamo di essere un po’ entrambi.

Tra le varie cose abbiamo anche provato e rodato i brani del prossimo album, che sono abbastanza complessi, almeno nell’esecuzione e devo dire che la risposta è stata molto buona. Soprattutto la consapevolezza di essere riusciti ad eseguirli al meglio con strumentazione molto basilare ed aver ottenuto una buona resa ci ha convinti dell’efficacia di molte cose che abbiamo scritto.

CINESI. Il minimo comune denominatore di un popolo così numeroso non è certo la diversità. Al di là dei tratti somatici, che cambiano da nord a sud, i cinesi si distinguono dal resto del mondo per la loro atavica frenesia. La vita in Cina è costantemente accompagnata dal frastuono: musica ad alto volume davanti agli infiniti negozi, tutti piccoli, tutti uguali, automobili ed autobus con il clacson costantemente in funzione a dipanare i continui ingorghi, il vociare continuo di voci vere e riprodotte dagli amplificatori delle stazioni. Non comprendere il significato delle parole rende, in breve tempo, tutti questi stimoli acustici una specie di rumore di fondo indistinguibile. Le stesse scritte, che tappezzano ogni via di ogni città, sono una decorazione che subito ti stordisce, in un secondo momento semplicemente ti accompagna e ti ricorda quanto sei lontano da casa.

In mezzo a questo perenne baccano visivo ed acustico si muovono i cinesi con le loro mille sfaccettature. I volti poveri e segnati dalla fatica che abbiamo incrociato sui molti treni a lunga percorrenza sono quelli dei contadini che cercano fortuna nelle città e che si perdono nelle strade commerciali, tra i banchetti improvvisati di cineserie, le macellerie truculente all’aria aperta e i carrelli di fast-food dagli odori indescrivibili. Poi ci sono altre facce. Quelle della Cina produttiva, che guarda a testa alta l’occidente. Le tante persone conosciute nei clubs e nei bar che ti ricoprono di domande sull’Italia, sull’Europa, su tutta la cultura che attraversa il mondo alla quale loro sanno bene di non poter attingere pienamente.

Ho parlato spesso con Wane, con Cen Cen (tour manager in seconda) e Dai Cheng della “rivoluzione culturale” di Mao. E’ stato un taglio netto con il passato e con la cultura cinese tradizionale, quella che andava al passo con la natura, fatta di pazienza e dedizione, spirito di osservazione, estasi e curiosità. Mao ha distrutto tutto questo assieme alle scuole ed ha trasformato la Cina in un ammasso informe di esseri iperproduttivi che rifiutano le loro radici e puntano ad un futuro fatto di soldi e potere. Per i cinesi i soldi sono un argomento di discussione sempre valido, la posizione lavorativa è molto di più di uno status symbol. Ho scoperto un nuovo tipo di individualismo: la famiglia e il lavoro sono due sistemi che spingono il cinese medio a superare il prossimo in una battaglia strenua di tutti contro tutti in cui gli unici a vincere sono sempre gli alti papaveri. Questo è un po’ straniante. Le persone che abbiamo incontrato, che non si riconoscono in questa imperante tendenza, vivono come sospese, conservando gelosamente le emozioni e gli interessi che li distinguono dal resto della massa informe che li circonda.

CITTA’. “Questa è una piccola città, ha circa 5 milioni di abitanti”. Questo ci siamo sentiti dire a Yulin, una città nel Guang-Xi (sud della Cina ad ovest di Hong Kong) che difficilmente si trova sull’atlante. “Sai, la nostra capitale, Roma fa 5 milioni di abitanti se metti assieme tutti i sobborghi che la circondano”. Questa era l’unica risposta che potevamo dare. Se poi racconti del tuo paesello di provincia con quindici mila abitanti puoi anche ricevere la fatidica domanda (assolutamente non sarcastica e posta con un candore quasi ammaliante) “…quindi è una specie di città privata?”. In questa parte del mondo l’aggettivo “privato” sta bene anche con il concetto di “città”, vedi la voce “individualismo” di cui sopra.

L’avanzamento inarrestabile della Cina ha partorito enormi agglomerati urbani che difficilmente si possono descrivere. Alcune città sono veramente interessanti, altre sono decisamente squallide. Shanghai è in pratica una nazione stesa su un territorio di 150km per 150km nella quale comprendere dove sia il centro è impresa ardua. Guangzhou (Canton) è una specie di New York asiatica che si sparge da Macao a Shenzhen senza soluzione di continuità. La verità è che, fatta eccezione per i centri di evidente valore politico-commerciale-finanziario, buona parte degli immensi quartieri di nuova costruzione celano alle loro spalle vasti slums di case costruite tra gli anni cinquanta e sessanta. Questi giganteschi quartieri brulicano di tavole calde, negozietti di cianfrusaglie, cliniche dalle dubbie condizioni igieniche, cumuli di immondizia in mezzo alle strade ed intricate selve di cavi elettrici e pali pendenti.

Esistono ancora, fortunatamente, alcune situazioni in cui il passato della Cina (quello più datato di 50 anni) si manifesta come nel caso di Suzhou (città turistica tutelata dall’UNESCO vicina a Shanghai dove ci sono ancora le ville ed i meravigliosi giardini degli emissari imperiali) o di Huang Yao (nel Guang-Xi, villaggio-museo illuminato da sole lanterne rosse e circondato da foresta subtropicale, fiumiciattoli e piccole colline appuntite).

CONNESSIONI. Wane, la nostra tour manager, ha costruito per noi un tour veramente fantastico. Ce ne siamo resi conto giorno dopo giorno. Lei è stata forse l’emblema di quello che la “nuova” Cina realmente rappresenta. Porta avanti questa attività da un po’ di anni esclusivamente per passione ed ha permesso a molte band americane ed europee di girare in questo Paese nell’unico modo possibile. Sinceramente credo che essere anarchici e amanti dell’hard-core in un posto come la Cina oggi sia una impresa coraggiosa ed estremamente utile, per tutti. Nella marea indistinta ed iperattiva della popolazione sta facendo conoscere a quella piccola fascia di persone interessate ciò che il mondo, al di là della muraglia, produce ed i risultati, seppur su scala molto ridotta, si vedono eccome. Abbiamo suonato in piccoli clubs davanti a poche decine di persone ed in clubs più grandi davanti a centinaia, ma il risultato è stato in entrambi i casi molto soddisfacente. L’interesse che un concerto scaturisce tra il pubblico cinese non è paragonabile a quello europeo; abbiamo venduto tanti dischi (una compilation dei nostri tre album in Chinese Limited Edition) ed abbiamo la convinzione di aver segnato l’immaginario di chi ci ha ascoltati, nel nostro piccolo, nel nostro modo. Questo è in realtà quello che abbiamo sempre voluto fare. Un piccola rivoluzione, nella terra delle grandi rivoluzioni.

CI PIACE. La scrittura cinese. La cucina cinese in Cina. I paesaggi ed il clima del Guang-Xi. Shanghai e la sua smaccata opulenza. La curiosità di tutti. Le sigarette 中南海 8mg supercheap. Le ragazze.

CI SCHIFA. L’abitudine dello sputo continuo. Le spinte quando sei in coda, che avvengono a prescindere: se c’è una coda, si spinge. Nessun riscaldamento in casa. I vestiti di trapunta. Pagare il McDonald’s con banconote con la faccia di Mao sopra, per il Mc e per Mao. Internet tutto bloccato. Lo “stinky tofu” e il suo odore indescrivibile. I bidoncini di noodles istantanei.”

NonVoglioCheClara, Unwound (PD),21.1.11

Gennaio 22, 2011

Tra il tuo carattere e il mio decidiamo di andare a Padova a vedere i Non Voglio Che Clara. Perché Unwound ha la miglior programmazione del nordest, quando porta i grossi calibri americani ed europei e non si fa mancare il meglio che offre questo paese, novero in cui da un bel po’ di tempo sta anche la banda bellunese. Che la serata sia propizia lo si nota dal gran numero di automobili parcheggiate lungo tutta via Dalmazia e limitrofe, ben prima dell’inizio affidato alle altalenanti melodie dell’intenso Marco Zordan, a volte un po’ pedissequo nei confronti dei grandi autori ma da seguire una volta sfrondato degli orpelli. Ci sono i numeri, quelli che consentono al locale all-girls-directed di proseguire nella sua mirabile linea, e ci sono i musicisti, quella razza spesso tacciata di non partecipare ai concerti degli altri: prima del live trovi Fabio De Min al bugigattolo del guardaroba intento ad esporre i dischi di Lavorare Stanca e le nuove magliette “Dei Cani”, un attimo dopo con la sua cravatta sale le scalette e assieme a Matteo Visigalli, Marcello Batelli e Igor de Paoli inizia lo show. Sorprendente! Assai elettrico, chitarristico, massivo, l’act vive sulle pedaliere e naturalmente caracolla al piano assieme al suo interprete primo, atmosfera appagata dalle file compresse e ordinate che si sono estese fino alla consolle dell’ottimo So/Fou, ma quantomeno molesta nei tanti che parlavano e ridevano a ridosso del bancone, noncuranti della tensione emotiva che solo i brani dei Non Voglio Che Clara riescono a sprigionare. La mareggiata del ’66 si infrange contro il muro di scogli che fanno alzare il livello dello “scontro” e dimenticare per più di un attimo la dimensione orchestrale dei Clara, prediletta in altri contesti o teatri, stavolta accantonata da una line up essenziale ed efficace. Secoli dai primi demo lo-fi, solo qualche anno dall’album omonimo con Porno e ulteriori quelli trascorsi dai brividi delle Paure, intatti anche stasera, più incede lento più facciamo sconti scontati al talento di De Min, Il dramma della gelosia lo vede raccolto per poi sbranare le corde shoegaze sulle Guerre, arrangiata nel disco dai Port-Royal con qualche ispirazione Flaming Lips qui più facilmente impostata Slowdive. E’ quell’ingresso delle chitarre nella nostra tradizione che invochiamo spesso quando parliamo di raffronti con l’estero, istruzioni new folk oppure postrock per far brillare ulteriormente liriche sicure come Tu, la ragazza l’ami? (outtake dall’album), brutalizzata da un terminale rumorismo bianco che solo Sottile, per sua voce più acconcia, poteva rianimare. Dalle prime note di piano degli Anni dell’università il brusio si accomoda in disparte, entrano gli altri strumenti e l’elegia assume tutti i suoi colori, i migliori Dei Cani, di quei pezzi che si scrivono una volta nella vita… La stagione buona ricorda Fossati, dico alla mia vicina, che rimbalza con un giusto “ma anche Generale“, solo con riverberi sonici che dopo undici tracce in playlist conducono agli encores: L’estate dolente per voce, piano e chitarra acustica con un refrain che non ti scolli più, cui abbandonarsi. L’inconsolabile, evidente la sintonia col penultimo corso Baustel-cinematografico, infine il capolavoro Cary Grant sommerso di apoteosi fuzz rock, le onde del mare entrano all’Unwound per ritirarsi con una cover in inglese, basta poco per mancare l’attimo e non capire se “è dei Black Sabbath” o “piacerebbe ai Black Sabbath”, di quelle band le cui t-shirt Fabio era solito vestire, pe’ provocà, nei live del vecchio tour. Il rompete le righe sui baciabbracci, le collezioni di errori, “lo so, tu non hai niente che non va” ovvero cronista e musico senza schermi a miniaturizzare i perché destinati a restare sulla tastiera: annunciato un venturo aggiornamento della scaletta, immanente l’onesta purezza dello scrivere canzoni senza che cadano dalle nuvole, ma pretendere che in un Paese come questo (in un giorno come questo, in serate come queste) abbiano la forza di cambiare davvero le cose di sempre.

Fauve! Gegen a Space Barena, 18/19.12.10

Dicembre 20, 2010

Elettronica non allineata, recita l’ultimo claim partorito dal Frito Rebelde a Chioggialab. Significa mangiare canestrelli al Club dei Pescatori con i Fauve! Gegen a Rhino, in un tripudio di fanti di briscola e dentature improponibili d’anzianità, e dopo nemmeno un giorno contare tre macbook bianchi da tredici pollici in meno di un metro allo Zuni per Space Barena, ragazze matricole che sfogliano Vice in scenario post-hipster mentre Antonio Cassange -proteggiamo il suo anonimato- spinge cablogrammi masterizzati ed e(n)vergreen a volumi alterni, Bob Sinclar che fa aerobica con Jane Fonda.

Veneti e toscani uniti dalla sintesi digitale e del beat percussivo, ma anche dal rappresentare istanze non maggioritarie tra gli ascoltatori electro: nel primo caso l’ambient noise che da intellettuale si fa fisica, nel secondo la ruspante fusione di dubstep e laguna prima delle cavalcate grezzoidi (kuduro e libertà). Alieni, si chiedono i soliti noti al Lab il sabato, davanti alla formazione tavolata dei F!GaR: a un certo punto Andrea Lulli percuote una tanica vuota, da queste parti la si usa per portare l’acqua alla cabina in spiaggia, e la insegue davanti al palchetto, il live dei Fauve! è davvero più voluminoso rispetto al disco (“Namegivers’ Avenue“), chi arriva all’una si becca solo la fine…

Chissà come saranno accolti a Ferrara il prossimo 27 febbraio, stanti le premesse: Space Barena assetta il palco in stivali di gomma anti-acqua alta, spriz espositivo, caffettiera da sveglia alle 4 e tutto quanto fa iconografia. Stavolta mancano dell’implemento di un quotato mc, quindi picchiano di break a volumi alti sotto il clip che ritrae una gara di cucina con sardine, mancano alcuni degli habitué ma l’affluenza all’inizio è buona. “Come i Trans AM”, mi dice Antonio Cassange mentre i pescatori fuori dal relativo club piazzano intermezzi rumoristi (gabbiani perlopiù) suscitando reazioni controverse tra la curiosità e il distacco. Fortuna vuole che in una scaletta mal assortita arrivino comunque i colpi -Contado, Anguilla- a significare movimento e groove, sebbene per pochi: mancava poco e avrei fatto live report in diretta sui divani colmi di riviste internazionali, felicità è vendere qualche copia del disco fin che RRRocco orienta all’hip hop il suo set electro, sapendo che il 30 gennaio saranno i “suoi” No Seduction a cimentarsi dal palco.

L’ultimo concerto di Italian Embassy a Zuni per il 2010 lascia appunto in eredità le sicurezze per i primi due mesi del calendario futuro:

-domenica 23 gennaio, Mezzala canta Numero6 (indiepop d’autore, Genova)
-domenica 30 gennaio, No Seduction (dance punk, Chioggia)
-domenica 13 febbraio, Madrac (urban, Udine)
-domenica 27 febbraio, Fauve! Gegen a Rhino (tribal ambient, Pistoia)

Rock Contest, Flog (Firenze), 11.12.2010

Dicembre 19, 2010

Non amo i concorsi. Sono spesso e volentieri, purtroppo, luoghi dove si mettono musicisti di generi e specie diverse gli uni contro gli altri, con vantaggi minimi per chi vince. Almeno in Italia, ma non a Firenze, dove il Rock Contest di Controradio da molti anni promuove quella che sarà, con buona approssimazione, la musica più influente nell’indipendenza nazionale: nel suo palmares -tra gli altri, vittoriosi o meno poco importa- Offlaga Disco Pax, Samuel Katarro, Piet Mondrian… Ogni stagione sei finalisti convocati all’auditorium Flog, gremito di pubblico a prescindere dall’headliner straniero (quest’anno i Warlocks), giudicati da un numeroso parterre di operatori della comunicazione specializzata in un clima amichevole, partecipato, includente: sarà forse questo il segreto del successo, assieme alla capillare organizzazione e comunicazione, fatto sta che nell’edizione 2010 sono arrivati fino in fondo sei realtà tutte egualmente meritevoli del riconoscimento, in un quadro “non originale ma dal buon livello medio” per usare le condivisibili parole di Giuseppe Barone, responsabile della programmazione musicale di Controradio. Due terzi i gruppi toscani, segno anche della vitalità del territorio: aprono i giochi i Ganzi, ensemble locale altamente iconografico nella propria dimensione di “beat contro i matusa”, in un anno favorevole al modus si distinguono per energia, filologia e ironia. Lo show è trascinante anche se il pubblico “balla” poco, forse deve scaldarsi, forse i numeri cresceranno col prosieguo: nonostante i limiti fonici del luogo, soprattutto per quanto riguarda le tastiere, lo spettacolo riesce anche se per essere presi sul serio dovrebbero provare a far confluire il loro suono peculiare entro un alveo nuovo e sperimentale. Secondo, il pescarese Giuliano Clerico e la sua band: cantautore caciarone e tenutario di una tradizione popolaresca, dimostra di poter già stare sul piano di alcuni nomi più affermati, grazie soprattutto a un singolo impressionante come la titletrack Il costruttore di meccaniche sognanti che manda la memoria a rinverdire il Dalla 77/80, Sergio Caputo, Rino Gaetano ma soprattutto Roma spogliata di Luca Barbarossa. Non tutti i brani sono a questa altezza, alcuni standard ordinari potrebbero essere affinati e resi più potenti, più incisivi: ma come per gli altri coprotagonisti della serata, l’esame -se di questo si tratta- è certamente superato. Piano For Airport vengono dai castelli romani e riempiono l’aria del suono Morr (Ms. John Soda per la precisione) gonfiato d’elio, indietronica al vocoder che rende la performance algida, spaziale ma con un cuore: impeccabili e non calligrafici, hanno nel concept un po’ passé il principale ostacolo a una piena consonanza con lo Zeitgeist del pubblico indie attuale, forse un po’ di fisicità potrebbe giovare. Al giro di boa suonano The Street Clerks, usciti da un set fotografico a Camden Town e analogamente portatori del brit migliore, tutti i pezzi -o quasi- paiono singoli e al di là dell’attitudine e del look leggermente campagnolo i brani ci sono e la platea si muove, applaudendo con divertimento. Se il songbook conoscerà nuovi colpi ce n’è per considerarli una felice presenza nella scena nazionale: ricordano per certi versi i livornesi The Walrus, il cui frontman Giorgio Mannucci presiede ora al progetto Mandrake, esibitosi per quinto e penultimo. Segnalato in cartella come “esperimento che unisce indie pop alla musica da camera” per via di un paio di musiciste classiche, in realtà la definizione è sicuramente esagerata anche se permane la facilità, la delicatezza e il groove come marchio di fabbrica: la mano di Giorgio si sente eccome, l’effetto è piacevole e può garantire frutti primaverili nonostante sia un refolo di fresca leggerezza. A serrare la fila la Betta Blues Society, ensemble ispirato dallo swing anni Venti e Trenta, senza batteria ma assolutamente cinetico per l’audience, come per i Ganzi la sua forza (fanno quello che non fa nessuno) diventa anche paradossale limite, e a lungo andare finisce per strappare qualche sbadiglio sebbene la cantante ci “creda” molto.

Il verdetto finale premia gli Street Clerks con molti voti massimi, ma in sede di segreteria non si poteva non notare in tanti l’effettivo livellamento verso l’alto della “competizione”, quantomai in salute quale stimolo professionale a mantenere le aspettative di musicisti ed ascoltatori. Al mattino successivo in stazione incontro Brown And The Leaves reduce da un apprezzato concerto al circolo Aurora: dopo una notte in piedi racconta che coi suoi musicisti ha sfangato il tempo suonando per strada, e ho capito in un solo momento perché ho viaggiato e fatto la levataccia.

Canadians, Zuni (Ferrara), 5.12.2010

Dicembre 14, 2010

I concerti di Italian Embassy a Zuni stanno andando bene, per presenze e qualità musicale. Magari ci fosse sempre dappertutto quell’affluenza: la città di Ferrara è ricettiva e fidelizzata, il locale di via Ragno non è “il solito posto” ma offre sempre qualcosa in più. E a breve verranno comunicate le date IE per il 2011…

I Canadians si sono presentati tra le mura estensi in 4, complice purtroppo la defezione del chitarrista Michele Nicoli cui il lavoro per le ricorrenze natalizie non ha dato tregua. Ma per ascoltare i canadesi di Verona si sono dati appuntamento da tutto il nord Italia via twitter, chi da Bologna chi da Milano, nutrita la rappresentanza scaligera (i “cangrandi sciolti”) e pure importante il featuring ai piatti, ovvero Enzo Polaroid a scaldare il pop e vedersi a banco. Tanta ma tanta gente dappertutto, prima fila occupata dai seduti per terra, clima surreale per il penultimo concerto di Christian Corso con la maglia gialloblu: il valente bus driver sta per dedicarsi completamente al lavoro -quello che paga- e già si scorge la presenza del baldo Andrea in zona mixer, uscito con la band per il naturale svezzamento. E’ un natale anticipato, di parole come “you are the one” e “these scumbags” (Rain turns into hail) (And then the sun), nell’angolo per A great day e Leave no trace, benvenuto fuzzy al pubblico. Ode to the season porta alla memoria le belle stagioni passate con la bontà del gruppo, schermaglie tra palco e platea just for the LOL. I’m a Yes man e fendo la folla per traslare alcoolici sul palco, c’è Valentina che balla vicina e Martino che strizza l’occhio dal bancone, dietro una bolgia composta, nessuno si risparmia, 15th of August e il micidiale uno-due con Kim the dishwasher e The richest dumbass in the world, tanta energia, le voci che coprono quella di Duccio, Max che fa da collante e Vittorio a dominare la scena. Tornano i vecchi singoli, Summer teenage girl e Soon soon soon, che fanno capire una volta di più come il progetto sia intrinsecamente valido e degno di giocare su altri terreni, ci diciamoci fortuna ad avercene qua vicino quando le note del mixer di Polaroid decantano il pueblo che scema e circonda gli eroi proletari, questa musica in blue jeans che cede la sua parte al lavoro quotidiano ma non smette di essere il sogno di ogni ragazzino.

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