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Che cosa vi ho dato? Tanta musica

Cari tutti e tutte,

quando nel recente passato paventavo questo momento presente, ero sicuro mi sarebbe dispiaciuto molto di più di quanto mi dispiaccia ora. Segno che è il momento giusto per dire basta e staccare, prima che il dominio scompaia tra pochi giorni, e non ricordo ormai più quante righe copre questa parte nel form di wordpress elaborato dal sempre ottimo Fulvio Romanin, prima di arrivare alla foto. Poche? Troppe? Clic.

Ma come -qualcuno potrebbe chiedersi- proprio ora che le sorti del quotidiano di Parma al quale ho prestato la mia opera di redattore sono quantomai incerte, intermittenti, volte al brutto, e quindi magari torna il tempo per occuparsi di nuovo seriamente della comunicazione, informazione, promozione riguardo le musiche indipendenti italiane, anche verso utenti esteri? Sì. Non tanto perché io non sia più informato dal succedersi delle cose musicali, anche se ho perso passaggi specie relativi al folto apparato di notizie, territoriali e non, che erano una delle forze di Italian Embassy.

Le motivazioni ultime risiedono in una serie di fattori, parte dei quali sono anche all’origine del mio disimpegno dalla pubblicazione su Blow Up, a partire dal gennaio 2012, quando non avrò più l’angoscia della chiusura delle pagine, la nulla volontà di ascoltare per dovere. In primis è proprio questo, operare in altri settori ha aumentato la mia perdita di un senso a tutto il discorso sulla musica che non sia un lavoro e per lavoro, professionale nei suoi effetti, cioè che produca il sostentamento di chi lo pone in essere. “Nessuno oggi”, ho scritto sull’ultimo Mogli E Buoi in edicola a dicembre “si chiede più il senso di quello che fa, il suo scopo: ve ne siete accorti? Perché, musico implume con poche sessioni di sala prove, o band celebrata al quinto disco sempre uguale, vuoi/volete per forza che io ascolti le vostre canzoni o tirate strumentali o esperimenti elettronici? Per quale motivo suoni? Per quale invece vuoi figurare sulle pagine, cioè vuoi avere un pubblico? E’ il tuo lavoro, ci ricavi qualcosa? O non hai limiti al comune narcisismo? Sai quanti ce ne sono come te… assumete per vero che è la musica che serve a voi, non siete voi a servire alla musica”.

La carta, i mensili, le riviste specializzate hanno sempre minori urgenze, in era web, e lo stesso internet di massa non è efficace nel cambiare ascolti e modalità di pensiero delle persone se non nei casi in cui sia mosso da posizioni di forza, dominanti, quasi uniche. Embassy nacque con presupposti dati e specifici, pure ambiziosi se volete, e non è riuscita ad affermarsi per l’inveterata abitudine italiana (e… parmigiana) a soccorrere un vincitore, a partire dalle band e dalle etichette che non assicuravano contenuti audio in anteprima esclusiva. Per essere credibili oggi servono i numeri, a suffragio delle opinioni, e non trattandosi di un lavoro redditizio (anzi, rubando fin troppo tempo), il gioco non è valso la candela, nemmeno in ultima istanza a farsi acquisire da chi magari ha apprezzato il format e avrebbe potuto metterlo al servizio della propria causa editoriale. Tutti a chiedere, nessuno a dare.

Più di tutto, so di ripetermi, ma non ho più interesse a essere contattato, a ricevere materiale, a dover rendere un servizio, con determinate scadenze: mi sento uno scopritore, uno scout, sono io che devo andare in cerca ad libitum, io che devo prima di tutto essere investito del potere dell’ascoltatore, di entusiasmarsi o skippare, io che spezzo una catena biunivoca -e chi scrive di musica sa quanto sia diverso operare nel campo del sottobosco nazionale anziché di artisti stranieri, con le implicazioni di amicizia e le aspettative che ne derivano automaticamente- negando il presupposto stesso del 2.0, lo scambio, l’osmosi, la cointeressenza. Io scrivo, tu leggi. Io scrivo, tu ricevi e ti fai un’idea. Io scrivo, e se contesti lo fai coi tuoi mezzi, altrove, senza cercarmi. Io scrivo, e il tuo amico non mi manda il suo dischetto per proprietà transitiva. Contro un circolo vizioso in cui importante è finire su un giornale specializzato (e non nei luoghi impervi dove davvero si giocano le partite) per racimolare date a pochi soldi, contro un meccanismo promozionale standardizzato per cui un disco è uscita-trattazione-intervista-video-tour-ep con gli scarti e poi la morte del supporto dopo tre o quattro mesi, archiviato per far posto ad altri in catena di montaggio, con tante canzoni che hanno ancor qualcosa da dire.

Oggi i dischi sono tutti disponibili in Rete, attraverso i vari soundcloud e bandcamp, per cui non ha proprio più senso quella orribile parola chiamata “recensione”; avrebbe un senso invece un discorso più serio, che unisca i puntini e tracci un quadro del perché e del percome, analisi sui testi, immersione da “resident” nelle città e negli studi di registrazione, quant’altro che solo un impiego fisso, retribuito mensilmente in forma tale da consentire la vita oltre al pagamento degli affitti e delle bollette, può giustificare. Mosso come sono dal presupposto che qui si sta facendo informazione, cronaca, come in un giornale quotidiano, non già la cosiddetta critica, almeno da parte mia. Alle firme in calce spetta confermare la bontà di un progetto con il solo scriverne l’esistenza e spiegarne gli aspetti, lirici, musicali, evocativi, nient’altro; al lettore, ricercare l’opera e farsi un’idea personale. Speravo, con questo modus operandi, di infondere criteri stilistici attraverso i quali osservare il segno dei tempi che passano.

Invece le condizioni da quando mi sono messo per la prima volta a scrivere di musica -scegliendo personalmente e contribuendo a lanciare non poche opere divenute patrimonio di un pubblico più vasto- sono radicalmente mutate, il primo difetto (colpa anche mia, ovviamente) è quello di consentire la fruizione immediata dei propri recapiti postali e “social” a una pluralità di persone che se ne servono a proprio uso e consumo, salvo non interessarsi alla cosa quando non personalmente coinvolti (musicisti che non passavate di qua e che chiedevate la pubblicazione, gente che non si è manco avvista dello stop, mi sto rivolgendo a voi). Un corpus di azioni che mi fa considerare come tutto il mio brulicare attorno a questa creatura che per l’ultima volta -salvi gli archivi mp3, fino a scadenza dominio- state leggendo sia stato circa inutile, improduttivo, sterile, indifferente.

Più che altro, noto come l’interesse al consumo musicale, ai suoi riti e alle sue recenti manìe stia scemando se non con valenza effimera, per esubero di stimoli e carenza di necessità, al netto dell’aiuto che ho contribuito a dare alle cose più meritevoli attraverso un sistema integrato fra la carta, il web, la radio, l’organizzazione di live, il passaparola: invii non richiesti e maledetti recall mal si conciliano con il mio modo di essere e di intendere questa applicazione, pur nella consapevolezza della buona fede del mestiere altrui. In Inghilterra e in Canada chi opera così riceve uno stipendio mensile adeguato, non lo fa per hobby. E anche se fosse un hobby, non è (più) il mio. Ma vedrete -facile cassandra- che molto presto l’intero indotto attorno a questa “cosa” si ridimensionerà a un livello, nel migliore di casi, di splendida e gradevole amatorialità, pur in presenza di eccellenze meritevoli di miglior causa, a tutti i livelli del sistema.

Mi pare di aver dato fino all’ultimo neurone, per la causa, negli anni Duemila o Zero che dir si voglia. E di accorgermi, a quasi quarant’anni, di non aver costruito -nonostante gli exploit- manco le fondamenta non solo di un segno visibile sulle scelte altrui, ma anche di un consolidarsi ad alti livelli di un mio impegno: trasmissioni radiofoniche di Stato offerte a persone di dubbia capacità, ruoli di scout e a&r che le major hanno abbandonato prendendo topiche colossali quando si è trattato di avocare a sè artisti nati nell’indipendenza sono lì a dimostrarlo. Se mai ritornerò a occuparmi di musica “scritta”, sarà perché attorno le condizioni private, professionali e ambientali saranno radicalmente mutate di nuovo.

Nell’anno corrente ho ascoltato pochissima musica, per i motivi di cui sopra e per un declino nell’attenzione che sta invece tornando a volgersi verso altre sirene, dalla politica e amministrazione alla gastronomia e al buon bere, così che se per un mese mi va di ascoltare solo un disco di una vita fa oppure il silenzio non posso farmene una colpa, come succedeva dieci anni fa prima di cominciare a muovermi nella scrittura di cose musicali: una spinta propulsiva che berlinguerianamente si è esaurita proprio ora che il tempo pare maturo da un lato per esperienze inedite, dall’altro per dimostrare di non essere uomini atti a tutte le stagioni.

Nei mesi “parmigiani” -per chi non lo sa cosa significa in pratica, essere chiamato a redigere ed editare circa 10mila battute diurne per il solo quotidiano- più volte ho pensato di affidare ad altri queste pagine, nate orgogliosamente “solitarie” eppure aperte ai contributi richiesti e non solo. Poi ho valutato che la soluzione ideale, per me e per tutti, sia far crescere giovani talenti della comunicazione, persone con idee fresche, abituate ad altre forme di operatività, con le antenne dritte sul futuro: penso a portali di spessore come Dance Like Shaquille O’Neal, a servizi che integrano trasmissioni web-radio come Gli Indiepatici e RadioNation, a colleghi di blog e radio che hanno iniziato “ai miei tempi”, per le finestre sul mondo a flash del tipo That Nice Haircut: questo a noi è dato, che già abbiamo fatto, e c’è già chi è pronto a rimpiazzarci del proprio, senza che mai avessimo potuto dimostrare. Seguiteli, e siate rigorosi.

Italian Embassy ha perso la sua scommessa: doveva andare così.
Onore a chi resta in piedi, farewell to arms.

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