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Le Luci della Centrale Elettrica, FE 11.11.10

Ho finito di scrivere la mia trattazione di “Per ora noi la chiameremo felicità” di notte mentre il primo minatore cileno saliva al suolo dopo la prigionia forzata nelle viscere della terra. L’analogia verghiana è solo la prima delle suggestioni che mi accompagnano al teatro comunale di Ferrara, première del nuovo tour delle Luci della Centrale Elettrica. Nella sua città, Vasco Brondi segue o precede di poco altre prime volte prestigiose, organizzate dalla macchina che d’estate muove Ferrara Sotto Le Stelle al castello frontaliero: il disco in studio dei Massimo Volume prima, le revisioni dub dei Tre Allegri Ragazzi Morti poi. Il foyer trabocca, c’è la coda per le nuove magliette rosse, grigie e nere con il claim più recente, sotto il portico passa un senegalese con in mano dei dischi pirata, chissà se avrà anche quello di Vasco… il cui nome viene urlato come coro da stadio da un figuro che incontreremo poi nella narrazione, e che avrà il suo peso (sic) nella serata. La bomboniera neoclassica è piena, sul palco il condominio a luci alterne pensato dalla copertina di Andrea Bruno, si dispongono da sinistra: Enrico Gabrielli incappucciato alle tastiere -ma poi sfodererà anche sax e clarinetto- Lorenzo Corti a stratificare la chitarra elettrica, sostituendo i ruoli che sul disco erano di Stefano Pilia (ora in tour con Grubbs e Belfi, poi coi Massimo Volume), Vasco all’acustica martoriata, e quante ne ha passate da quando era bello ascoltarlo così nudo durante i concerti del periodo del demo a cento euro a sera e dormire in quella Fiat Uno grigia… Infine, indispensabile per la maniera rock con cui è suonato, il violino elettrico di Rodrigo d’Erasmo. Due membri, presenti o passati, degli Afterhours: e anche questo dettaglio, corroborato da certa enfasi vocale o chitarristica, nonché dal tributo a Oceano di gomma negli encores, va a comporre un quadro necessitato, di Brondi come rocker letterario, erede quando sarà l’ora proprio della generazione Agnelli (coi vari Dente che rimpiazzeranno, per quanto sarà possibile, il ciclo post-De Gregori). Una guerra fredda fa vibrare i bassi di legno sul pavimento fino alle ginocchia, “a furia di ferirci siamo diventati consanguinei”, Vasco non ha ritenuto di passare al parrucco per la data zero, vederli sul palco -perché ormai è evidente che Le Luci della Centrale Elettrica non siano solo Vasco, ma tutti e quattro con quei dati muri del suono non catalitici- spazza ogni critica: sinistri presagi dal molto buio, zompano flash e cineprese, Fuochi artificiali (“andremo ad abortire”, sì, in coppia) in chitarrismo CSI anche senza Canali, mentre si ritorna ai pensieri che premevano dall’esterno durante le lavorazioni, se ad esempio avesse inserito una sezione ritmica di questo nome. Ma è il tempo della semplificazione, la coda lunga musicale e comunicativa pare stia segnando il passo e ci si aggrega per poli come nella più deteriore delle politiche: brondisti e antibrondisti sfuggono alla interpretazione autentica, Quando tornerai dall’estero ma tornerai all’Estragon e in mille altri posti, da fine mese, in tutta Italia, per un anno almeno… I toni si alzano, le prime parole del mattatore sono di ringraziamento: “Di solito le date zero le fanno in posti imbucati per nascondersi, noi forti di due prove (in Toscana nel weekend scorso, nde) siamo venuti qui”. I nostri corpi celesti pare modificata non geneticamente rispetto alla versione cd, con Rodrigo più acido: tutti vestono di nero e si fatica a distinguerli uscire dalla scenografia, come avvolti da un telo grande quanto il sipario. Le luci del palazzone storico, vagamente relato ai grattacieli di Ferrara-stazione-di-Ferrara, si accendono rosse in una finestra e si spengono gialle in un’altra, l’arpeggio noto appartiene a Piromani, al che l’ultrà di prima si sbraccia in piedi nella parte avanzata della platea: modestamente riarrangiata, il sax di Gabrielli quale Black&Decker remix. Ma ci sono anche i silenzi, non tutto è saturo, “addio fottiti ma aspettami” vs. “io non ti cerco, io non ti aspetto, ma non ti dimentico” di Mimì (sai che la paura è una cicatrice), D’Erasmo come posseduto sega il violino, Vasco ha ancora la bronchia gutturale che gli si conosceva e attacca al pezzo una lettura appena musicata dal blog che è diventato manifesto che è diventato libro: “il giorno dell’alluvione avevi una faccia diversa”, per chi è veneto un brivido in più. Le esplosioni di chitarre nel cielo del soffitto danno il via, nonostante spettatori un po’ molesti e indiesciplinati: il lungo abbrivio alla leggera L’amore al tempo dei licenziamenti dei metalmeccanici vede Corti alla slide guitar, e nell’immergersi dentro il testo risulta e risalta che Vasco Brondi non dice la realtà, ma le sue conseguenze su di noi. “Non ho imparato a gestire la situazione comunicativa tra una canzone e l’altra”, quasi si scusa e poi affonda: “Ora una canzone nuova, sempre molto simile alle precedenti”, il suo pubblico è con lui e ride, “o anche alle prossime, probabilmente”, arriva l’ovazione a smentire l’idea di ritirarsi dopo sole due opere pubblicate. Cara catastrofe l’oggetto del contendere, il primo apparso in rete e fagocitato da una salva di clic, una partenza molto simile a Piromani, ma è il momento del solito cristo probabilmente ebbro che non sente le ragioni della cortese security, okay che Vasco va vissuto con le viscere e il teatro un po’ castra, ma battibeccare col resto del pubblico non ha reso simpatico questo presunto eroe di periferia… A proposito di sorgenti, Bene del principe De Gregori -già rivista in tempi recenti dai Non Voglio Che Clara- convince meno della Domenica delle salme eseguita alla Notte della Tempesta, in quanto più “sua”: e ascoltato il pomeriggio in Parto, il featuring concesso all’amico Dimartino -di imminente uscita per Pippola- piacerebbe che le Luci per una volta fossero acustiche, o comunque colloquiali. Dall’alto il faro verde spara su La lotta armata al bar, molto effetto sulla voce e Gabrielli di nuovo al sax terremoto, che pare entrare solo nei brani da spiaggia deturpata: i gatti “scappati dai condom mini” è il vieto calembour che mi sale mentre Vasco rilegge la parte finale appena cantata, aggiornandosi “portami a bere la luna dalle pozzanghere” ripetuta quella ventina di volte. Un lungo tappeto di Gabrielli, quasi per accordarsi, poi il clarinetto per Anidride carbonica, anche se siamo seduti e sedati a teatro Vasco urla come si deve alla fine, semmai le poltrone ingessano il pubblico non lui, se è vero come è vero che certe emozioni andrebbero espanse ed espresse a voce alta secondo i Valentina Dorme. Invece fa caldo e siamo composti, forse ha ragione l’upset, forse Vasco ci vorrebbe così, in fondo il suo meglio lo dà nelle arene, nei rock club, nei centri sociali… Le petroliere è paradigma lessicale, ritorna la perdita del posto di lavoro, il concetto di protezione, quello che l’Italia sta perdendo e si ritrova pervicacemente in queste canzoni, un intero programma di governo progressista che in certi santuari di partito non ci credono manco più; anche questo brano termina con la ri-lettura, è la novità del tour? “Mi disegno una X sulla mano pe’ provocà”, penso mentre digito, sul palco il guitar clash tra Brondi e Corti su Camerieri, vocabolo sbeffeggiato nelle recenti interviste, ode a chi fa il mestiere ma pure la rockstar. Tutti la cantano sottovoce, le coppie in all star si abbracciano, è uno stile originale che ha contagiato i posteri, vorrei non dire plagiato mentre l’ignizione dell’Enterprise verso base Luna apre Per combattere l’acne ed è il momento clou del fan disturbatore: balla in piedi sulla sedia come Benigni agli Oscar, aspetta l’esercito del SERT e cerca di assaltare il palco, “io ballo Vasco!” urla al servizio d’ordine che tenta di tradurlo fuori, interviene Rodrigo d’Erasmo a raccomandarsi di non farlo salire ma senza obiezioni alla presenza in sala, Vasco è imbarazzato (“fa parte della coreografia”), parte un botta e risposta in cui il carneade urla titoli di cover brondiane (Un giorno balordo) e il frontman lo apostrofa: “Volevi andare a vedere i Diaframma”… Arriva l’ottima Per respingerti in mare che “sconsacra il luogo”, per dirla con VB “un pezzo molto ballabile” e succede di immedesimarsi come nel 1995 con “Lungo i bordi” dei Massimo Volume, ma avevo ventun anni e ora i conti fateli voi, eppure “neanche se ti pagano, ma tanto non ti pagano” quando ti arriva la notifica del decreto ingiuntivo che ti accrediterebbe i settemila euro che il tuo ex quotidiano ti deve ma sai che non li vedrai mai. Le tre chitarre e il sax scaricano in scena un backlash potente, la mia vicina Jamie Lee Curtis calcola l’ora e mezza di durata, i “grazie milioni, di essere venuti nonostante il decentramento geografico” (decentramento rispetto a cosa, al baricentro preteso naturale in realtà ostile?) a tenere il gioco delle parti per i bis, Oceano di gomma col solo Vasco B, tornano gli altri per le brutte notizie di gente che va di corsa mashate dal Leo Ferré che spiega il perché del titolo,”vi auguriamo di correre, avere freddo ogni tanto, dormire vestiti, saltare i pasti, fare quello che volete“… Le ragazze kamikaze è uno dei brani migliori del disco nuovo, davanti a me Andrea Alessandro Di Carlo applaude quando Vlad (ricordi, quando ti facevi chiamare così?) accenna alle “reazioni dei residenti”: lui anni fa scrisse “La rabbia” per NDA Press che anticipava la prosa brondiana in forma stampata, l’uso scientifico dei fumetti emiliani di qualità, insomma è ora di andarselo a leggere se già non è successo, ché le arti hanno tempo zero e infinito, non quello che i loro promotori vorrebbero inscatolare. Vasco avanza a bordo palco sugli alberghi appena costruiti che nascondono i tramonti, tu non preoccuparti se cammina sulle acque e su quello che non c’è della platea come Benigni a Hollywood, come il suo esagerato ammiratore di poco prima, sta già di sicuro pensando a quali aspetti della vita mostrare con una velocità di sguardo impropria alla mente comune e a segnare un’epoca rimanendo se stesso, poligono irregolare. Banditi i mezzi termini, è probabilmente il solo che, ancora all’inizio della carriera, scuote e non lascia indiefferenti, costringendo a fare i conti con la sua presenza senza poterla snobbare, e obbligando a schierarsi: cosa che per questa Italia in cerca di pareri equivalenti come gatti bigi, detrattori in balìa del vento e relativismo intercambiabile, è un lusso, un vezzo, una perdita o un macigno a seconda della propria morale.

dal flickr di Tommaso Guermandi


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